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Articolo di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su "Il Sole 24 Ore" del 17 maggio 2024: https://www.ilsole24ore.com/art/il-premierato-due-modifiche-una-riforma-accettabile-AFTcec3D


Il Presidente del Consiglio dei ministri sarà eletto a suffragio universale e diretto, e durerà in carica per cinque anni e potrà essere eletto per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. Il Capo dello Stato sarà tenuto a conferire l’incarico di formare il governo al Presidente del Consiglio risultato eletto. 

Il sistema elettorale è parzialmente costituzionalizzato, infatti la riforma prevede che il Presidente del Consiglio sia eletto contestualmente alle due Camere attraverso un sistema elettorale maggioritario. Il testo di riforma prevede un premio di maggioranza su base nazionale per entrambe le Camere (che garantisca la formazione di una maggioranza in entrambi i rami del Parlamento), pur nel rispetto dei principi di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche. Alcuni esponenti dell’opposizione hanno in primis contestato la versione originaria del ddl Meloni-Casellati, in cui era previsto un premio di maggioranza del 55% dei seggi, poi però la commissione affari costituzionali del Senato ha eliminato tale previsione lasciando la determinazione del premio di maggioranza al Parlamento. Giusto. Oggi le opposizioni chiedono invece di costituzionalizzare la soglia minima di voti oltre la quale deve scattare il premio. Una questione che, essendo stata sancita dalla Corte costituzionale con sentenza n. 1/2014, la maggioranza ha deciso di lasciare alla determinazione del Parlamento. A nostro avviso è materia di legge elettorale, ma per stanare la sinistra – per vedere cioè se fa sul serio o se vuole soltanto fare opposizione strumentale – una tale previsione può anche essere inserita nel testo di riforma attraverso una specifica riserva di legge. Le opposizioni però puntano addirittura a costituzionalizzare un sistema elettorale a doppio turno. Prima chiedono di togliere dal dettato della Costituzione la percentuale del 55% dei seggi come premio di maggioranza, poi addirittura insistono sull’inserire nel testo di riforma un sistema elettorale a doppio turno. Noi non siamo d’accordo. L’intenzione della sinistra è quella di creare un sistema elettorale similare a quello per l’elezione dell’Assemblea Nazionale in Francia (collegi uninominali a doppio turno), dove al secondo turno si creano alleanze ad excludèndum, cioè cordate elettorali - prettamente strumentali - che mirano a far perdere al ballottaggio chi al primo turno aveva ottenuto la maggioranza relativa dei voti. Il centro-sinistra poteva fare una seria opposizione sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio, insistendo su quella indiretta e sull’istituto della sfiducia costruttiva come avviene nel cancellierato tedesco (come peraltro avevamo proposto noi con il nostro libro Il premierato. Una riforma necessaria), ma ha abdicato, e, per mero tornaconto politico, punta addirittura alla costituzionalizzazione del sistema elettorale a doppio turno. 

Con la riforma il Parlamento non viene affatto svilito, anzi, conserva – nonostante l’elezione diretta del Presidente del Consiglio – il potere di accordare e revocare la fiducia al governo presieduto dal Presidente eletto. Nel caso in cui il Parlamento non accordasse la fiducia, il Presidente della Repubblica deve rinnovare l’incarico di formare l’esecutivo al medesimo Presidente eletto. Qualora anche in quest’ultimo caso il governo non ottenesse la fiducia del Parlamento, il Presidente della Repubblica deve procedere allo scioglimento delle Camere. Come spesso abbiamo ribadito nei nostri scritti, riteniamo un controsenso il voto di fiducia iniziale da parte delle Camere ad un Presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo. Se è eletto dal popolo, a che serve la fiducia parlamentare? Come che sia, non è una questione fondamentale, quindi crediamo che – per evitare di sottrarre poteri al Parlamento e di fornire alle opposizioni una argomentazione meramente strumentale – il voto di fiducia Camere-Governo possa anche essere mantenuto. 

Significativo è il nodo dello scioglimento delle Camere. Il Capo dello Stato deve procedere allo scioglimento di entrambe le Camere qualora il Presidente del Consiglio eletto non ottenga la fiducia iniziale da parte del Parlamento, ed è obbligato a farlo in altri due casi: quando glielo chiede il Presidente del Consiglio eletto dimissionario, entro sette giorni dalle dimissioni, e quando le Camere revocano la fiducia al governo presieduto dal Presidente del Consiglio eletto. La riforma va nel senso giusto, infatti – di fronte ad un Presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini – è impensabile che il Presidente della Repubblica possa avere margini di manovra per avallare o favorire la formazione di maggioranze differenti da quella sortita e legittimata dal voto popolare. 

Ciò detto, il testo della riforma conserva tuttavia alcuni margini di manovra che salvaguardano Parlamento e Quirinale. Qualora il Presidente del Consiglio eletto decida di non chiedere al Capo dello Stato lo scioglimento delle Camere entro sette giorni dalle sue dimissioni, ovvero in caso di suo impedimento permanente o decadenza, il Presidente della Repubblica potrà conferire l’incarico di formare il governo - per una sola volta nel corso della legislatura – allo stesso Presidente del Consiglio dei ministri dimissionario oppure ad un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio dei ministri. Un miglioramento da non sottovalutare rispetto alla formulazione originaria del ddl Casellati. L’eventualità che il Presidente del Consiglio eletto sia sostituito da un altro Presidente del Consiglio è dunque soggetta ad una valutazione politica dello stesso Presidente del Consiglio eletto, che giudicherà politicamente l’opportunità o meno di lasciare Palazzo Chigi ad altro parlamentare della sua stessa maggioranza. Nel caso in cui quest’ultimo non ottenesse la fiducia iniziale delle Camere ovvero si dimettesse, il Presidente della Repubblica deve sciogliere le Camere. In parole povere, la maggioranza andrà avanti solo se vi saranno le condizioni politiche per farlo. In caso contrario, si andrà alle urne. Non vediamo dove sia il problema. Forse, il problema è solo nella testa di chi è abituato ad andare al Governo senza vincere le elezioni. 

Con la riforma il Capo dello Stato non perde poteri, anzi, sono state addirittura ampliate le sue prerogative; infatti, il Presidente della Repubblica mantiene il potere di nominare i Ministri (e si aggiunge anche il potere di revoca), su proposta del Presidente del Consiglio eletto, esattamente come avviene da oltre settant’anni. Ma non solo. La riforma ha sottratto alla controfirma ministeriale alcuni atti del Presidente della Repubblica, il quale potrà emanarli senza il preventivo controllo da parte dell’esecutivo. Stiamo parlando della nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, della nomina dei giudici della Corte costituzionale, della concessione della grazia e della commutazione delle pene, del decreto di indizione delle elezioni e dei referendum, dei messaggi al Parlamento e del rinvio delle leggi alle Camere. Non siamo d’accordo su un punto, e cioè sul fatto che il Capo dello Stato debba conservare il potere di nominare, seppur su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri eletto, i Ministri. Un sostanziale potere di veto che riteniamo inaccettabile. Un Presidente del Consiglio eletto a suffragio universale e diretto deve avere il potere e il diritto, come ce l’hanno il Primo Ministro britannico e il Presidente Usa (che peraltro sono eletti con un sistema elettorale di tipo indiretto), di nominare le persone che ritengono più idonee – quantomeno nei Ministeri chiave - per l’attuazione del programma di Governo. Su questo punto riteniamo che il Parlamento possa ancora migliorare la riforma, attribuendo il potere di nomina e revoca dei Ministri al solo Presidente del Consiglio eletto. 

Alla luce delle argomentazioni sin qui svolte, proponiamo le seguenti due modifiche: 1) inserire nel testo di riforma una riserva di legge per cui il Parlamento deve prevedere una soglia minima di voti o di seggi, a seconda del sistema elettorale che verrà adottato, oltre la quale è legittima l’applicazione del premio di maggioranza; 2) modificare il testo di riforma attribuendo il potere di nomina e revoca dei Ministri al solo Presidente del Consiglio eletto, il quale deve poter firmare i decreti di nomina e di revoca (assumendosene la responsabilità politica dinanzi alle Camere) senza condividere tali scelte con il Capo dello Stato. 

La riforma si trova adesso in fase di prima deliberazione. È stata approvata dalla commissione affari costituzionali del Senato (fine aprile 2024) e deve ancora essere approvata dall’aula di Palazzo Madama. Poi deve passare alla commissione affari costituzionali della Camera e all’aula di Montecitorio, dove può ancora subire modifiche. Dopo di che, una volta che le Camere l’hanno approvato a maggioranza dei presenti nel medesimo testo, il ddl passerà – rispettando l’intervallo di almeno tre mesi – alla seconda deliberazione, dove entrambe le Camere dovranno approvarlo senza modifiche quantomeno a maggioranza dei componenti di ciascuna.




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